venerdì 22 gennaio 2021

Gregoire Ahongbonon, l'uomo che ridona libertà e dignità ai malati mentali


Oggi voglio parlare di una persona davvero speciale, uno di quegli uomini che rendono veramente migliore il mondo in cui viviamo: Gregoire Ahongbonon.
Ho conosciuto brevemente la sua storia da una delle trasmissioni televisive che preferisco, “Sulla Via di Damasco”, e allora ho deciso di fare delle ricerche e scrivere un post su di lui, su quest' Uomo che tanto, tanto Bene ha fatto e fa tuttora nella sua amata Africa.

Gregoire Ahongbonon è nato nel 1953 a Ketoukpe, un piccolo villaggio del Benin al confine con la Nigeria, poi nel 1971 si è trasferito a Bouakè, in Costa d'Avorio, dove inizia un attività come riparatore di pneumatici e successivamente apre un agenzia di tassì. Gregoire non ha avuto la possibilità di studiare, «non conoscevo niente» ha ripetuto più volte, tuttavia, a soli 23 anni, grazie al suo lavoro aveva già la sua auto personale e ben quattro tassì: era diventato ricco in Costa d'Avorio! In Benin aveva avuto un rapporto molto forte con Dio «non potevo fare nulla senza Dio, era il mio unico riferimento, ed ero molto legato alla Chiesa. Sono arrivato in Costa d’Avorio e di fronte alla ricchezza e al successo, ho abbandonato Dio e la Chiesa». Gli affari di Gregoire, però, iniziano ad andare male, deve affrontare grossi problemi economici e la sua attività va sempre peggio fino a finire sul lastrico. A causa di questo fallimento vive un periodo di profonda depressione e smarrimento, tanto da arrivare a tentare persino il suicidio. «Ho iniziato una vita miserabile: quando avevo i soldi avevo molti amici, quando ho perso tutto, tutti mi hanno abbandonato. Sono rimasto solo con mia moglie e i due figli che avevo all’epoca. È stato il momento peggiore che abbia mai vissuto». Questa grande sofferenza fa maturare in Gregoire il desiderio di riavvicinarsi a Dio e alla Chiesa, e in questa situazione incontra Joseph Pasquier, un prete missionario che lo accoglie con grande affetto come il figliol prodigo. Questo sacerdote organizza un pellegrinaggio a Gerusalemme e, naturalmente, invita anche Gregoire a parteciparvi, pagandogli il biglietto del viaggio.
«Chi avrebbe mai creduto di ritrovarmi lungo i passi del Vangelo, a Gerusalemme! Al termine di questo pellegrinaggio posso dire che Dio mi ha donato tanto, così tanto che non sapevo come ringraziarLo. In una delle Messe del pellegrinaggio, durante l’omelia, il prete dichiara che ogni cristiano deve partecipare alla costruzione della Chiesa ponendo una pietra». Questa frase lo tocca nel profondo: «Ho compreso che la Chiesa non è soltanto dei preti e dei religiosi. E ho capito che tutti i battezzati devono partecipare alla costruzione della Chiesa e iniziai a chiedermi quale fosse la pietra che io dovevo porre».

Il ritorno in Africa e la svolta

Dopo questo pellegrinaggio, ritornando in Africa, Gregoire si pone sempre più insistentemente la domanda di quale sia “questa pietra da porre” nella sua vita e all'interno della Chiesa. Assieme a sua moglie Leontine, ha l'idea di formare un gruppo di preghiera che si rechi in ospedale a visitare gli ammalati per pregare con loro. Fonda allora l'“Association Saint Camille de Lellis”, in onore al Santo protettore degli ammalati. Durante queste visite Gregoire scopre con grande amarezza che molti ammalati giacciono in grandi stanzoni dell'ospedale completamente abbandonati, e questo perchè in Africa non esiste alcuna previdenza sociale e se si è ammalati e non si dispone di soldi, non si ha diritto alle cure mediche. «Di fronte a questi ammalati abbiamo pensato che prima di iniziare a pregare con loro, occorreva manifestare loro la nostra amicizia e il nostro amore. Innanzitutto occorreva lavarli e provvedere per le medicine; a poco a poco questi malati riacquisiscono la loro salute e quelli che erano in procinto di morire almeno potevano morire con dignità, come uomini». Attraverso questa esperienza molto forte Gregoire inizia a comprendere perchè Gesù si è identificato nei poveri e nei malati, ed è stato proprio a partire da questo incontro che lui e il suo gruppo comprendono che dovevano trovare Gesù proprio in queste persone.

Al servizio dei malati mentali

Nel 1980 inizia per Gregoire una nuova storia: quella con i malati mentali. Qui è necessario dire che i malati mentali in Africa sono considerati meno di niente, i “dimenticati dei dimenticati” e questo a causa di assurde convinzioni che taccia queste persone come “possedute” da spiriti immondi e quindi additati come un'onta per la società e una vergogna per le proprie famiglie. Giacciono in uno stato di completo abbandono, spesso nell'immondizia, abbandonati da tutti come qualcosa di “immondo”. La gente passa loro accanto ma non li vede. «Anche io, come tutti, passavo accanto a loro senza vederli – racconta Gregoire -. Tutti hanno paura di loro, e anche io avevo paura di questi malati. Un giorno però, nel 1980, ho visto un ragazzo che rovistava nell’immondizia per cercare cibo, tutto nudo. Quel giorno, diversamente dalle altre volte in cui passavo avanti senza vederlo, improvvisamente mi sono fermato e ho iniziato a guardarlo e mentre lo guardavo mi sono detto: “Questo è Gesù che cerco nelle chiese, è Gesù che cerco nei gruppi di preghiera, è Cristo che incontro nei Sacramenti, è Gesù in persona che soffre attraverso questi ammalati! Sul momento ebbi paura ma una voce, dentro di me, mi rispose: “Se queste persone rappresentano per te il Cristo, perché aver paura di loro?”».

A partire da questo incontro Gregoire inizia a far visita la notte a questi ammalati per vedere dove dormono, e iniziando ad incontrarli e a conoscerli comprende che sono degli uomini, delle donne e dei bambini che desiderano soltanto essere amati. «Ne ho parlato con mia moglie, abbiamo comprato un frigorifero portatile dove mettevamo cibo e acqua fresca e passavamo di notte per le strade a scovare questi nostri amici. Subito si è creato un legame di amicizia. Ma un giorno mi sono chiesto a cosa servisse portare da mangiare per strada mentre io poi tornavo a casa, potevo lavarmi e dormire comodamente, a differenza di quell’ammalato, che rappresenta Gesù, che invece continua a vivere nell’indigenza». E' così che Gregoire decide di incontrare il direttore generale dell'ospedale dove aveva incominciato a visitare gli ammalati ed ottiene il permesso di utilizzare lo spazio della cappella per accogliere i primi ammalati ai quali elargisce cure mediche grazie alle quali molti di loro riniziano ad acquisire la salute.
Nel 1983 il direttore dell'ospedale riceve l'importante visita del Ministro della Salute, e tra le varie cose gli mostra anche l'esperienza di Gregoire all'interno della cappella ospedaliera. Il Ministro ne rimane entusiasta e augura a Gregoire che la sua opera si diffonda al più presto in tutti gli ospedali del Paese. Gregoire approfitta dell'incontro per chiedergli «se poteva donare il terreno adiacente all’ospedale per costruire un luogo che potesse accogliere gli ammalati» e poi, grazie alla Provvidenza, è sorto il primo centro. Dapprima il nuovo centro ha iniziato ad accogliere tutti gli ammalati psichici della città, poi però, a poco a poco, cominciano a chiedere aiuto anche le famiglie degli ammalati che vivevano nei villaggi.
I malati in catene

Nel 1984, alla vigilia della Domenica delle Palme, una donna chiede aiuto all'associazione di Gregoire per il fratello ammalato: «Siamo andati con questa signora nel villaggio e, una volta arrivati, quest’ultima chiama il padre che vuole mandarci via dicendo che il figlio è già in uno stato di putrefazione e che non sarebbe servito a nulla portarlo nel nostro centro. Io ho detto che desideravo comunque vederlo; tuttavia, il padre continuava a minacciarmi di chiamare la polizia e il capo villaggio, grazie alla cui mediazione si prende la decisione di aprire la porta del luogo in cui il malato si trovava». E qui che per la prima volta Gregoire scopre qualcosa di raccapricciante: c'è un giovane incatenato a un tronco come Gesù sulla croce, con i due piedi legati al legno e le due braccia anch'esse legate con il fil di ferro e con tutto il corpo in un tale stato di putrefazione da provare un senso di disgusto. «È stato difficilissimo togliere le catene, ma quando alla fine siamo riusciti a slegarlo e a lavarlo, una volta giunti al centro, il ragazzo risponde: “non so come dire, grazie a voi e a dire grazie a Dio, non so cosa ho fatto per meritare questa sorte da parte dei miei genitori”; e mi rivolge la domanda: “posso ancora vivere”? Era talmente putrefatto da morire subito dopo. “Per me è comunque morto in modo dignitoso come un uomo». Questo fatto indigna a tal punto Gregoire da spingerlo ad andare a ricercare i malati mentali nei villaggi, dove inizia a scoprire diversi metodi di incatenamento: al collo, talvolta con le due braccia legate, altre volte con le gambe incatenate. «Cose che non potevamo immaginare alla nostra epoca».

Gregoire non attribuisce la colpa di queste cose alle famiglie degli ammalati. «Le famiglie non sanno cosa fare, talvolta è con grande sofferenza che legano i loro figli, i loro parenti, perché i malati mentali rappresentano l’ultimo pensiero delle nostre istituzioni. La Costa d’Avorio, la cui superficie supera quella italiana, ha solo due ospedali psichiatrici in tutto il Paese; in Benin c’è un solo ospedale psichiatrico. In entrambi gli Stati, come per la stragrande maggioranza dei paesi africani, privi di welfare, se non si ha la possibilità economica non si può accedere alle cure». «Non è colpa delle famiglie: quello che è peggio di tutto sono le sette religiose che promettono miracoli alle famiglie. Siccome questi malati vengono considerati come posseduti dal demonio, le sette rassicurano i genitori affermando di avere il potere di scacciare il demonio e creano dei centri dove le famiglie portano i loro ammalati e pagano anche! Li incatenano agli alberi sostenendo che occorre far soffrire il corpo affinché il demonio possa fuoriuscire dal corpo, li privano di acqua e di cibo e li bastonano per scacciare il diavolo». «Abbiamo chiesto di parlare con i responsabili di questi centri, ma non abbiamo ottenuto nulla, siamo andati fino al tribunale per denunciare, abbiamo mandato la polizia che ha asserito che si tratta di folli e che non c’è nulla da fare».
Dal momento che le rimostranze di Gregoire e della sua associazione non sortiscono alcun effetto, si è arrivati alla conclusione che l'unica soluzione possibile per combattere questa orribile piaga sia quella di costruire altri centri. Grazie alla Provvidenza e alla buona volontà di tanti uomini, l'associazione Saint Camille de Lellis conta oggi (2020) in Costa d'Avorio quattro centri d'accoglienza e sei centri di lavoro, in Benin quattro centri di accoglienza e tre centri di lavoro, in Togo tre centri di accoglienza e un centro di lavoro e in Burkina Faso solo un centro. Fino ad oggi Gregoire e la sua associazione hanno accolto più di 60 mila persone con problemi psichici in 25 anni di aiuto e interventi, e 25 mila malati di mente sono attualmente ospitati nei Centri di cura. Ma la cosa sorprendente, da sottolineare grandemente, è che sono i malati stessi i responsabili di questi centri: infatti queste persone, una volta guarite, vengono inviate a scuola per diventare infermieri e ritornano nei centri per curare a propria volta altre persone.

Gregoire nel corso della sua vita ha ricevuto numerosi premi e onoreficenze. L'Italia non fa eccezione in questo, avendolo insignito nel 1998, del Premio Internazionale Franco Basaglia con la seguente motivazione: “per aver dimostrato con la sua pratica di liberazione dalla contenzione e di emancipazione dei pazienti psichiatrici quanto la dignità e il rispetto degli uomini e delle donne sia alla base di ogni intervento di salute mentale”.

La testimonianza di vita e di Fede di Gregoire, uomo sposato e con sei figli, è veramente meravigliosa. il Bene che quest'uomo ha fatto, e continua a fare, assieme alla sua associazione, nel recupero e nel reinserimento delle persone malate in Africa è straordinario. Lui però non si attribuisce alcun merito perchè, come lui stesso afferma «Quello che vivo non viene da me, è più forte di me. Dio è venuto a prendermi da un fosso».
Grazie di tutto Gregoire!

Marco


FONTI: Jobel Onlus, Camilliani.org, Genova.it


lunedì 18 gennaio 2021

«I miei 20 anni accanto a Padre Pio»


«Ho assistito a molti eventi inspiegabili, dalla sua stessa guarigione, grazie alla Madonna, a quella del mio papà. Ma il più grande è stato il suo Amore per Gesù»

Padre Marciano Morra ha un'aria severa che incute un po' di timore. Minuto ma affilato, ha l'espressione di un esigente professore di Latino. Ma è la sua corazza da timido. Quando entra un po' in confidenza e si lascia andare ha un sorriso dolcissimo. Nessuno meglio di lui può parlare di san Pio da Pietrelcina, padre Pio come tutti continuano a chiamarlo, del quale ricorrono in questi giorni due importanti ricorrenze che lo riguardano: i cento anni dall'impressione delle stimmate, avvenuta il 20 settembre 1918, e la sua morte, il 23 settembre 1968.

Padre Marciano ha ottantanove anni e per quasi venti è stato un suo confratello nel convento di San Giovanni Rotondo, dove il santo visse dal 1916 fino alla sua scomparsa. E' quindi una miniera di ricordi, aneddoti, emozioni che racconta con la sua voce pacata. «Era bellissimo stargli accanto», dice. «Facevamo a gara per passare del tempo insieme a lui: era come stare vicino a un papà affettuoso. Ci illuminava con la santità. E ci deliziava perché era un uomo gioviale e divertente. Ma c'erano volte in cui ti guardava fisso. Quello era il momento in cui leggeva nella coscienza con uno sguardo magnetico che ti trapassava. Sapevi che stava scrutando nel tuo cuore. Leggeva nelle persone come fossero stati dei libri aperti».

Nella sagrestia della vecchia chiesa del convento di Santa Maria delle Grazie, padre Marciano ci parla delle stimmate, forse il mistero più eclatante di padre Pio. Ferite alle mani, ai piedi e al costato che rimandavano alla Passione di Cristo e che erano sempre aperte come piaghe vive. Padre Marciano le ha viste più volte da vicino. «Padre Pio teneva le mani sempre coperte da mezzi guanti anche perché un ordine del Sant'Uffizio gli proibiva di mostrare le ferite. Li toglieva solo quando celebrava la Messa e allora era possibile vedere le piaghe. Servirgli Messa perciò era un compito ambito perché si era vicini a un grande mistero. In più, tornato in sagrestia, il Padre faceva baciare le mani, sempre senza guanti, ai due che erano stati con lui sull'altare. In quel momento potevo vedere bene le ferite che aveva sul palmo. Posso testimoniare che erano veri e propri buchi che trapassavano le mani da parte a parte. Il vero miracolo delle stimmate però non sta tanto nella loro presenza e nel fatto che padre Pio le abbia portate per cinquant'anni ma nel fatto che poi sono scomparse. Per ordine del Vaticano, le piaghe erano state esaminate diverse volte da medici. Alcuni avevano dichiarato l'inspiegabilità della loro natura, altri invece le avevano giudicate un imbroglio affermando che padre Pio se le procurava da solo usando degli acidi. Con la loro scomparsa però, nessuno ha più potuto dire nulla. Come è possibile infatti che una piaga, a prescindere da come si sia formata, scompaia senza lasciare neppure una piccola cicatrice? Questo è il vero miracolo che testimonia la veridicità delle stimmate.»

«Qui in sagrestia ho veduto padre Pio compiere un prodigio, guarendo il mio papà che era molto malato», continua padre Marciano. «Aveva un tumore ai polmoni e i medici gli avevano dato poco da vivere. Padre Pio lo guardò fisso, poi lo prese per il bavero della giacca e con l'altra mano iniziò a tirargli dei pugni sul petto dicendo: “E chi te l'ha detto che tu stai malato? Tu stai bene! Stai bene!”. E subito dopo: “Ora ti saluto. Arrivederci!”. Disse proprio così: “Arrivederci!”. Non capii subito cosa voleva dire ma lo compresi in seguito. Il mio papà aveva i giorni contati e invece guarì e incontrò ancora padre Pio. Ci lasciò quindici anni dopo per un'altra malattia».

Padre Marciano ricorda un altro episodio importante: «Ero presente anche quando padre Pio fu miracolato dalla Madonna. Era il 1959. Quell'anno era stata portata in Italia la statua pellegrina della Madonna di Fatima che girava le diocesi delle più importanti città. Per interessamento del cardinale Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna, amico di padre Pio, si fece in modo che la statua fosse portata per due giorni anche a San Giovanni Rotondo. Però padre Pio era a letto da quattro mesi. Aveva un tumore ai polmoni e si diceva che stesse per morire. Lo portammo di peso in chiesa, dove era stata sistemata la statua della Madonna. Lì si fermò in preghiera, baciò l'immagine della Vergine e le pose tra le mani una coroncina del Rosario. Poi si fece portare alla finestra per vedere l'elicottero che partiva con la statua. Era stato deciso, infatti, che l'elicottero sarebbe andato via dopo aver fatto tre giri sopra Casa Sollievo della Sofferenza, l'ospedale fondato da Padre Pio. Quando lui vide il velivolo che si allontanava, disse: “Madonnina, sei venuta in Italia e io ero ammalato. Ora te ne vai e mi lasci ancora ammalato”. Poi, improvvisamente fu come se fosse stato attraversato da una scossa. Ero a pochi metri da lui e lo vidi tremare. Si girò e gridò: “Ma io sto bene. Sto bene. Andiamo a confessare”. Ovviamente gli fu impedito di andare in confessionale e venne riportato della sua cella. Ma il giorno dopo riprese la vita di sempre. Era perfettamente guarito».

di Roberto Allegri

FONTE: Famiglia Cristiana N. 37
16 settembre 2018


Ieri mattina, 17 gennaio 2021, padre Marciano Morra ha lasciato questa vita per raggiungere la Patria Celeste.
Ho pensato quindi di pubblicare questo articolo, sulle pagine di questo blog, in suo onore, in onore di questo fraticello che ha vissuto tutta la propria vita alla sequela di Cristo e che è stato uno dei testimoni più autorevoli della vita di Padre Pio.
Ho sempre avuto una particolare simpatia per questo frate, che ho seguito spesso sull'emittente Padre Pio TV, quando celebrava la S. Messa e quando raccontava tanti episodi e aneddoti sulla vita di Padre Pio. Ed era un piacere ascoltarlo, i suoi racconti erano sempre gustosi, mai banali, vivaci e piacevolissimi. Per tutto questo, e per altro ancora, mi addolora grandemente questa perdita, è un pò come se avessi perduto un caro amico. E padre Marciano, anche se non l'ho mai conosciuto personalmente, era come se fosse veramente un mio amico, e credo anche un amico di tante, tante altre persone. Ora il padre ha raggiunto l'agognata Patria Celeste, quell'Abbraccio di Dio che attende tutti quanti noi, solo che lo vogliamo. E non dubito affatto che, alle soglie del Paradiso, ci sia stato ad attenderlo Padre Pio, colui che padre Marciano ha contribuito a far conoscere in maniera determinante a tantissime persone.
Ora riposa in Pace caro padre Marciano.... l'Eterna Beatitudine ti attende!

Marco

sabato 16 gennaio 2021

Lino Banfi: “Prego la Madonna di poter morire insieme a mia moglie”

Una vita intera vissuta assieme e, ora che la malattia ha colpito uno dei due, c’è il desiderio di andare in Cielo insieme. La preghiera di Lino Banfi.
“Prego la Madonna di poter morire insieme a mia moglie”. Una frase che fa commuovere, ma che allo stesso tempo, racconta il calvario di Lino Banfi.


Lino Banfi: “La mia devozione a Maria”

Più di 50 anni di vita passati insieme, mai un tradimento, mai una discussione. Ma ora la malattia c’ha messo il suo zampino. Lino Banfi si racconta e, in particolare, sceglie di spiegare perché la sua devozione alla Madonna è così forte e radicata.

Appena ti svegli, prima di tutto devi pregare e ringraziare la Madonna. Perché parlare proprio con la Madonna? Perché lei parla col Padreterno” – spiega l’attore. La sua fede particolare inizia all’età di 5 anni, quando suo nonno Giuseppe comincia a parlargli di Gesù e di Maria. Il pregare prima di andare a scuola ma, soprattutto, pregare come prima cosa da fare ogni giorno. Lei mi ha guarito quando avevo il tifo”.

Ma c’è stato un episodio particolare grazie al quale Lino Banfi ha capito che Maria aveva steso la mano sulla sua testa: “A dieci anni stavo morendo, avevo il tifo e la malaria […] Il medico veniva a visitarmi tutti i giorni e mi faceva delle iniezioni. Non mangiavo più, ero magrissimo, pieno di croste. Quando la malattia si aggravò, giacevo nel letto e non riuscivo più a parlare. All’improvviso, una mattina mi svegliai e chiesi a mia madre la gazzosa. Nella notte, le croste erano cadute”.

Un miracolo? Assolutamente sì: “Mia madre mi raccontò che quella notte avevo sognato una donna con un bambino in braccio ed ero guarito […] Penso fosse la Madonna di Canosa” – continua.

Lino Banfi: “Il mio incontro con Papa Francesco”

La fede, la preghiera, il suo sentirsi "il nonno d’Italia", ma anche un attaccamento particolare a Papa Francesco: “Quando ho incontrato Papa Francesco, gli ho fatto notare che abbiamo la stessa età. E, presentandomi come il nonno d’Italia, lui candidamente, in spagnolo, mi ha risposto: “Lei è il nonno del mondo” – ha raccontato, con gioia, l’attore pugliese. “Oggi prego Maria per mia moglie. Le chiedo di farci morire insieme

Oggi, la preghiera a Maria di Lino Banfi è per sua moglie, malata di Alzheimer: “In questo periodo le chiedo di aiutarmi con mia moglie Lucia […] Nessuno ti dice quello che devi fare con le persone care che non stanno bene. Alla Vergine imploro: “Se tu e Gesù mi amate, fatemelo sentire” […]
Ditemi la verità: quanti anni di vita mi date ancora? Se possibile, cercate di far morire insieme mia moglie e me perché l’uno senza l’altro non riusciremmo a stare” – conclude.

Un amore indissolubile, quasi come se fossero nati per stare sempre l’uno accanto all’altro. Ed ora, davanti alla sofferenza, Lino prega sì, ma chiede soprattutto di non staccarsi mai da sua moglie, neanche in punto di morte.


di Rosalia Gigliano

8 gennaio 2012

FONTE: la luce di Maria

venerdì 8 gennaio 2021

Don Alberto “star del web”: in rete seguendo il Concilio

Don Alberto Ravagnani, sacerdote ambrosiano diventato in pochi mesi un fenomeno mediatico con i suoi video su YouTube, spiega quanto sia decisivo oggi annunciare il Vangelo in rete. “Attenzione al linguaggio, dobbiamo parlare a tutti, non solo a chi viene in parrocchia”.

Città del Vaticano - Lo scorso 20 giugno, durante l’udienza ad alcune delegazioni della Lombardia, la regione italiana più colpita dal Covid-19, Papa Francesco ha voluto evidenziare lo “zelo pastorale e la sollecitudine creativa” dei tanti sacerdoti che, durante i mesi più difficili della pandemia, “hanno aiutato la gente a proseguire il cammino della fede e a non rimanere sola di fronte al dolore e alla paura”. Un esempio di creatività “digitale” è giunto sicuramente in quel periodo da un giovane sacerdote ambrosiano, don Alberto Ravagnani, che presta servizio pastorale presso l’oratorio di San Michele Arcangelo di Busto Arsizio, in provincia di Varese. Nel mese di marzo, all’inizio della quarantena, come tanti altri preti, per restare vicino ai suoi ragazzi don Alberto ha utilizzato la rete. Ha aperto una pagina su YouTube e ha iniziato a condividere video dove con linguaggio rapido e un montaggio vivace rispondeva a dubbi di fede relativi alla pandemia e più in generale alla vita cristiana.

Risposte ai dubbi di fede, in una pagina con 72mila iscritti.

L’iniziativa ha avuto, com’è noto, un grande riscontro, tanto che la sua pagina ha oggi più di 72mila iscritti e i suoi video raggiungono di media le 60mila visualizzazioni, mentre alcuni hanno superato quota 100mila (ora, gennaio 2021, i numeri sono ben superiori n.d.r.). “È stato un grande esperimento. Ho voluto provare ed è andata bene a quanto pare”, ha spiegato con semplicità don Alberto ai microfoni di Radio Vaticana Italia. Il sacerdote 26enne racconta di non essersi preparato in modo particolare per comunicare attraverso i social, ma di aver fatto esperienza sul campo, con l’unica certezza che come evangelizzatori oggi nel web bisogna proprio esserci.

Don Alberto - Usare YouTube per me è stato come imparare a parlare una lingua nuova. Sono sbarcato in una terra straniera di cui più o meno sapevo qualcosina e ho fatto pratica sul campo, senza avere tanta esperienza, un po' alla volta, tentando di apprendere qualche segreto dagli altri youtuber o da altri preti che avevano già pubblicato qualcosa sui social. Così ho trovato un po' la mia strada, il mio stile e poi basta, sono partito.

Molti osservatori della blogosfera cattolica la hanno considerata uno dei fenomeni più interessanti tra le novità digitali prodotte nel mondo ecclesiale durante la pandemia. Che impressione le ha fatto?

Don Alberto - Mi ha molto colpito, sinceramente. Trovare il mio nome sui giornali è stato un colpo, perché non me lo sarei mai aspettato. Ma mi fa piacere essere stato apprezzato nel mio tentativo di trovare dei modi per poter parlare del Vangelo in questo mondo, in questo tempo, sui canali e sui mezzi che oggi i giovani utilizzano. Quindi queste critiche positive sono state per me una conferma e un invito ad andare avanti ancora.

Lei è anche insegnante di religione presso il Liceo scientifico Tosi di Busto Arsizio. Che reazioni hanno avuto i suoi studenti a questa improvvisa notorietà del loro prof?

Don Alberto - Sono stati molto colpiti, anche perché hanno scoperto che anche i loro amici di altre classi e di altre scuole facevano lezione di religione con i miei video. Quindi erano contenti di poter dire che io sono il loro insegnante! Ma soprattutto debbo dire che sono stati loro ad aiutare me. Più volte consultandoli ho cercato di capire quale tematica dovevo affrontare nei miei video o di avere qualche altro consiglio. Insomma li ho utilizzati come veri e propri “tester” per alcuni video che ho poi pubblicato.

Il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione ha appena pubblicato un nuovo Direttorio per la Catechesi in cui si parla a lungo di digitale e si afferma l'importanza di garantire nella rete una presenza che testimoni i valori del Vangelo. Come commenta questa affermazione?

Don Alberto - Devo dire che essere presenti sul web per testimoniare il Vangelo è secondo me oggi fondamentale. Io me ne sono reso conto adesso, perché non appena mi sono affacciato in questo mondo, in maniera così decisa e convinta, ho raccolto subito tanto e non solo in termini virtuali, ma anche in termini reali. Questa mia esposizione mediatica ha avuto cioè dei risvolti interessanti non solo nella mia vita on-line, ma anche nella mia vita off-line. E questo sia per quanto riguarda ragazzi e persone di Busto Arsizio, sia per quanto riguarda nuovi rapporti che sono nati in Italia o altrove o anche l’intervista che stiamo facendo in questo momento. Credo che oggi il web, la rete, sia un polo che raduna tante persone, tante relazioni, tante istituzioni. Tutto il mondo passa attraverso il web per cui “starci” credo che sia oggi decisivo. Io non ho ancora approfondito i testi del nuovo Direttorio, ma posso dire che in questi mesi a guidarmi è stato proprio l’intento principale del Concilio Vaticano II. Papa Giovanni XXIII proprio in apertura del Concilio aveva indicato come suo obiettivo quello di riuscire a dire in maniera nuova le cose di sempre, e cioè il Vangelo e la Tradizione della Chiesa. Io penso che oggi il web sia il territorio più adatto per poter dire in maniera nuova le cose di sempre.

C'è anche un lato oscuro del web che bisogna temere?

Don Alberto - Ovviamente, come dovunque. Io penso che i pericoli che sono presenti in rete sono in fin dei conti gli stessi che sono presenti nella vita reale. Alcuni certamente amplificati, altri potenziati, però fondamentalmente sono gli stessi. Quindi credo che con lo stesso atteggiamento, la stessa disposizione d'animo, le stesse virtù con cui evangelizziamo nella vita reale, in oratorio, in parrocchia, al lavoro, dobbiamo evangelizzare anche su web. L’importante è mantenersi coerenti con le proprie posizioni, i propri valori, la propria vocazione, puntando lo sguardo sempre sul bene, su Gesù e sul magistero della Chiesa. Poi è chiaro che ci sono delle insidie, ma penso che se questi punti rimangono fissi allora è più facile districarsi.

Quale consiglio daresti a chi volesse utilizzare YouTube o i socialnetwork per evangelizzare?

Don Alberto - Consiglierei soprattutto di prestare attenzione al linguaggio che si utilizza. Con linguaggio non intendo solo le parole che si pronunciano, ma anche il modo con cui si sta davanti alla telecamera o dietro lo schermo. Cioè quello che comunichiamo attraverso il nostro corpo, le nostre espressioni, il nostro modo di vestire… Perché la sfida oggi si gioca sulla comunicazione, sul linguaggio. Dobbiamo capire che in rete non abbiamo di fronte l'assemblea della Santa Messa o i ragazzi dell'oratorio, che sono già predisposti ad ascoltarci. Qui abbiamo davanti gente che magari è lontanissima da noi e dalla Fede. Per cui per intercettarli dobbiamo trovare un modo che sia convincente, affascinante, credibile e che possa suscitare poi un’ulteriore frequentazione virtuale, attraverso internet e poi magari reale.

Come tutte le star della rete anche lei ha i suoi “haters” e cioè i suoi odiatori. Che impressione le fa questo fenomeno?

Don Alberto - Credo sia normale quando ci si espone sul web ricevere attestazioni di disistima o addirittura manifestazioni di odio. Normalizzando la questione penso che sia il segno che in questo momento mi sono esposto e la mia voce è stata raccolta e sentita. Non mi scandalizzo. Mi dispiace molto, ma non mi scandalizzo.

di Fabio Colagrande

5 luglio 2020

FONTE: Vatican News


Sono venuto a conoscenza di don Alberto Ravagnani dalla trasmissione televisiva "A Sua Immagine" e da quel momento ho approfondito la cosa. Sono entrato sul suo canale You Tube e ho visto alcuni dei suoi video. Devo dire che sono rimasto molto colpito dal linguaggio "moderno" e "al passo coi tempi" di questo giovane sacerdote, un linguaggio che credo dovrebbe piacere molto ai giovani d'oggi. Mi sento quindi d'invitare i giovani a vedere qualcuno di questi video.... così che ciascuno si possa fare la propria idea.
Comunque è bello constatare come ci siano ancora dei giovani che sentono il "richiamo" di Dio e vogliono dedicare a Lui e al prossimo tutta la propria vita. Perchè, come lo stesso don Alberto dice: "Vivere con Dio la propria vita è la sola cosa che ti può rendere veramente FELICE. La vita con la Fede è molto più BELLA!"

Marco

mercoledì 6 gennaio 2021

Frati in treno: Napoli, la stazione dell'Anima


DAL 1976 CINQUE VAGONI SI SONO TRASFORMATI IN CONVENTO. POVERTA', PREGHIERA, ASCOLTO: LI', OGGI, VIVONO OTTO FRANCESCANI.
«ANCHE SE FERMI SIAMO PERENNEMENTE IN VIAGGIO»


Un sediolino di legno, un tavolo e una branda. L'essenziale per pregare e lavorare è racchiuso dentro la cuccetta di un vecchio treno delle Ferrovie dello Stato che dal 1976 è il convento dei Frati minori rinnovati di Napoli. In quei vagoni degli anni '40 la comunità che vive tutt'intorno ha trovato l'interpretazione più autentica dei messaggi di papa Francesco. Nel convento su rotaie vivono otto frati, nessuno di loro ha mai conosciuto il Papa. Eppure nel marzo dell'anno scorso Francesco fu a Scampia, a soli 3 chilometri dai vagoni di via Marfella. «Se ritorna a Napoli lo ospitiamo, non c'è problema. Ma non so se qui riuscirebbe a dormire». Fra Carlo del Divino Amore è il guardiano superiore del convento che si trova nella periferia di Napoli. Cinque vagoni "parcheggiati" ai confini del parco di Capodimonte, in un luogo poco distante da quei quartieri difficili di Napoli dove la povertà ricorda proprio quella "fine del mondo" da cui è venuto papa Francesco.
Un grande cancello marrone consente l'accesso al convento: quattro vagoni che nel '76 sono stati sistemati paralleli a due a due su binari morti grazie all'aiuto di una grande gru. Sono immersi nel verde, d'estate diventano roventi e solo la frescura degli alberi regala un po' di sollievo. D'inverno invece sono freddissimi, così le coperte sui letti diventano anche cinque.
L'arredamento è scarno. Quei treni hanno appena l'essenziale e rappresentano quell'idea di provvisorietà che oggi sembra condizionare la vita, soprattutto dei giovani. «Noi cerchiamo di recuperare lo spirito di san Francesco e il treno rappresenta il cammino itinerante», spiega fra Carlo, «ma anche la semplicità e la precarietà. Con questi valori cerchiamo di recuperare la spiritualità e l'insegnamento di san Francesco. Anche se fermi siamo perennemente in viaggio, perché niente è nostro, non possiamo radicarci in nessuna cosa».
Il convento di via Marfella è la stazione dell'anima. Quella in cui i pellegrini partono per il viaggio in cui imparano a dare e ricevere. Ad amare ed essere amati. A superare quelle false esigenze che quotidianamente condizionano la vita. «Siamo qui ad ascoltare e siamo pronti a dare una mano quando serve». La pienezza del messaggio di papa Francesco si concretizza nei gesti più semplici come quello della carità e della misericordia. «Non usiamo soldi», puntualizza fra Carlo, «ma c'è una moneta più forte, si tratta del dono». Alla necessità di generi alimentari o di altro viene incontro la generosità di chi ha un poco in più. E tutto quel poco poi diventa tanto da poterlo addirittura donare ad altri. «I contadini della zona ci portano verdura, frutta, uova, altri ci portano coperte, ma a noi basta poco e tolto quello che ci occorre il resto lo doniamo. Qui intorno c'è la 167 (un rione fatto di palazzine costruite per gli sfollati del terremoto dell'80, ndr), ci sono le Vele di Scampia e molti hanno bisogno di essere aiutati».
Nel convento non c'è una vera cucina, i frati preparano i pasti cuocendo il cibo su una stufa a legna. E poi la mancanza di un frigorifero che impedisce di conservare gli alimenti diventa non la condizione, ma la scelta per poter condividere e donare il cibo a chi ne ha bisogno. Ed è così che il convento dei Frati minori rinnovati diventa quasi un osservatorio sulla povertà.
Quella stessa povertà a cui ha pensato Jorge Mario Bergoglio quando ha scelto il suo nome. «Papa Francesco ritorna al Vangelo così come ha fatto san Francesco, cercando di ripresentare quello spirito e di accogliere il prossimo, di aiutarlo». Un supporto che non è solo materiale. I frati, che collaborano anche con la parrocchia del rione 167 di Scampia, ormai sono un punto di riferimento per la comunità. «È un'attività che si è intensificata soprattutto negli ultimi dieci anni», puntualizza fra Carlo: «Qui arriva sempre gente, vengono, prendono quello che serve. Poi ci sono alcuni dei nostri frati che girano nel quartiere, conoscono la realtà della gente che viene qui. Noi cerchiamo di dare conforto e di parlare con loro. Soprattutto cerchiamo di ascoltarli e di portare le persone a guardare la vita con occhi più cristiani».
La pace che si avverte una volta entrati nell'originale convento è il primo segnale di benessere per l'anima. «Quando le persone vengono qui esclamano: "Oh, che pace" e l'avvertono indipendentemente da quello che dicono o che diciamo noi», dice ancora fra Carlo.
È un abbraccio costante quello dei frati con il quartiere. «È il coraggio di chi vuol ricominciare da capo adattandosi a realtà che chiedono sempre più sacrifici. Proprio come ci suggerisce papa Francesco». La barba lunga che copre le guance di fra Carlo non lascia capire se accenna un sorriso. Che dopo una piccola pausa s'avvia alla conclusione: «Non conosco papa Francesco, ma con il suo carattere, beh, credo proprio che qui si troverebbe bene».

di Maria Elefante

FONTE: Famiglia Cristiana N.31
30 lugio 2017


E' davvero sorprendente che in una società moderna, opulenta e razionale come la nostra, possano ancora esserci uomini che decidano di vivere in questo modo, con questo stile di vita così umile ed essenziale, sulle orme di San Francesco. Sorprendente ma bellissimo.... e non posso negare che, mentre leggevo e riportavo sulle pagine di questo blog questo articolo, un senso di grande "pace" mi abbia pervaso, quella stessa pace che avvertono le persone quando entrano in questi vecchi vagoni ferroviari e prendono contatto con i frati.
Eh sì, queste sono proprio quelle belle cose che portano tanta pace nella nostra anima, e di cui dovremmo "nutrirci" più spesso. Onore e merito quindi a questi umili, semplici, generosissimi frati, i quali ci insegnano che certi valori, che possono magari sembrare "fuori dal tempo", in realtà non passano mai. E questo è davvero meraviglioso. Un Grazie sentitissimo da parte mia a tutti quanti loro!

Marco

sabato 2 gennaio 2021

«E' Tua Madre che li fa entrare»

«Un giorno nostro Signore, facendo un giro in Paradiso, vide certe facce equivoche e ne chiese spiegazione a San Pietro: “Come mai sono riuscite a entrare qua dentro? Mi pare che tu non sorvegli bene la porta”. Pietro, tutto mortificato, rispose: “Signore, io non ci posso fare niente”. E Gesù: “Come non ci puoi fare niente? La chiave ce l'hai tu. Fa' il tuo dovere, sta' più attento”.»

«Dopo qualche giorno, il Signore fa un altro giro e vede altri individui dalla faccia poco raccomandabile. “Pietro, ho visto certe altre facce, si vede che tu non controlli bene l'entrata”. E Pietro: “Signore, io non ci posso fare niente e non ci puoi fare niente neanche Tu”. E il Signore: “Neanche Io? Oh, questa è grossa!”. “Sì, neanche Tu” ribatté Pietro: “Tua Madre ha un'altra chiave. E' Tua Madre che li fa entrare”.»




Questa storiella veniva raccontata spesso da Padre Pio, tanto che qualcuno la attribuisce proprio al Santo di Pietrelcina. Ma che sia sua o di qualcun altro ha poca importanza: è bella, semplice, e nella sua schiettezza popolare mette chiaramente in risalto la grande Misericordia della Santa Madre di Dio nei confronti di noi uomini, figli Suoi, compresi i “meno raccomandabili” e peccatori.
Questo è l'immenso Amore della Madonna verso tutti quanti noi!

Marco